L’aeroporto è affollato, come sempre. Un microcosmo variegato e colorato di persone, valigie, zaini che si muove alla rinfusa, senza ordine, senza un senso apparente. Tutti comunque affaccendati: in coda al check in, in cammino verso il gate, al bar davanti a un caffè o a uno spuntino, concentrati sulle pagine di un libro o immersi nella lettura di un quotidiano; i più, avvinti allo schermo di un cellulare. Lea ha accompagnato il padre dei suoi figli in partenza per Boston. Le festività trascorse insieme, a famiglia riunita, sono state piacevoli e rilassanti. Il clima era sereno, addirittura allegro: merito dei ragazzi e della loro effervescente presenza. Hanno chiacchierato molto – rivedersi dopo mesi, comporta infiniti e dettagliati racconti – curiosi l’uno della vita dell’altro. Ora si torna alla normalità. Ognuno si riappropria del suo quotidiano, dei suoi luoghi, degli spazi. Sbrigate le formalità, imbarcato il bagaglio, è arrivato il momento dei saluti. Le solite raccomandazioni – abbi cura di te, non lavorare troppo, telefonami, scrivimi – e un abbraccio. Un po’ d’imbarazzo c’è ancora, quando si abbracciano. Una carezza veloce e un bacio. Lea lo segue con lo sguardo mentre s’incammina verso i controlli. Lui si gira un paio di volte a salutare con la mano. E si sorridono, anche con gli occhi.